6 errori da evitare per il bene della tua strategia di Employer Branding
Cosa vuol dire mettere in atto una strategia di Employer Branding? E quali errori evitare per far sì che vada a buon fine? Ecco i 6 più comuni assolutamente da evitare.
Puntare sull’Employer Branding per rendere la propria azienda attrattiva come luogo di lavoro è diventato quasi un must per le aziende che vogliono selezionare e ingaggiare le persone giuste.
Ma per riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissati, non basta solo pubblicare contenuti e trovare i canali adatti per farlo, serve, piuttosto, una vera e propria strategia di Employer Branding. Strategia che permetta non solo di presidiare il processo di recruitment in ogni sua parte, ma anche di attrarre talenti nel momento in cui non c’è una ricerca attiva o intercettare i cosiddetti candidati passivi.
Ma non tutte le strategie vengono progettate in ogni loro aspetto, ecco perché è facile incappare in degli errori sia nella fase di ideazione che, successivamente, quando si sono già compiute delle azioni.
Vediamo allora quali sono i 6 errori più comuni di una strategia di Employer Branding e come evitarli.
SOMMARIO
- Non avere una strategia chiara e perdere di vista gli obiettivi
- Non condividere la tua EVP con dipendenti e candidati
- Ignorare feedback e recensioni
- Non conoscere e analizzare il proprio pubblico
- Sottovalutare la presenza online per suscitare interesse
- Trascurare i social media
Non avere una strategia chiara e perdere di vista gli obiettivi
Lavorare strategicamente in ottica di Employer Branding non significa in automatico avere una strategia chiara con degli obiettivi definiti. Ci sono infatti alcuni brand che sbagliano già dalla fase iniziale e questo perché anziché definire dei traguardi da raggiungere, iniziano direttamente con il “fare delle cose”.
L’idea è “intanto cominciamo, poi vediamo come va e aggiustiamo il tiro”. E se è vero che a modificare quanto si è previsto si fa sempre in tempo, è altrettanto vero che è fondamentale avere una direzione da perseguire.
È infatti importante considerare la strategia di Employer Branding non come un progetto che inizia e finisce, ma che dura nel tempo.
Le azioni e le tattiche che si mettono in campo possono avere e hanno una durata determinata, ma la strategia di Employer Branding deve essere continua e costante. Questo perché il lavoro che si fa sulla brand reputation non può essere messo in pausa, dimenticato o tralasciato: si ritorcerebbe contro come un boomerang.
Creare degli obiettivi di Employer Branding è altrettanto fondamentale. Dove vuoi arrivare? Vuoi semplicemente aumentare il numero di persone che risponde agli annunci o vuoi che aumenti un certa tipologia di candidati? Vuoi puntare su una vera e propria strategia di Talent Acquisition o quello che conta è trovare solo candidati per quella posizione vacante? E ancora: vuoi aumentare il traffico verso la career page o vuoi che aumenti il tempo di permanenza di chi ci clicca su in modo da far capire che tipo di posizioni offri? Vuoi far crescere il tuo corporate branding o limitarti a “copiare” quello che fanno gli altri?
Sono solo degli esempi di obiettivi: ciò che conta è che siano chiari e possibilmente suddivisi tra quelli a breve termine, raggiungibili entro una manciata di mesi, e a lungo termine, raggiungibili in un arco di tempo maggiore.
Non condividere la tua EVP con dipendenti e candidati
Qual è la tua Employee Value Proposition? Per quale motivo chi lavora con te dovrebbe continuare a farlo e soprattutto perché un candidato dovrebbe scegliere la tua azienda anziché un’altra? Qual è il modo in cui la tua azienda lavora e i valori in cui crede? A queste e altre domande risponde la cosiddetta EVP ossia quella proposta di valore che interessa non tanto i clienti, ma i dipendenti e i candidati.
Eppure, capita spesso – ed è un errore strategico molto grave – che le persone non sappiano quello che l’azienda fa “per soddisfare i bisogni, le aspettative e anche i sogni dei collaboratori”, per dirla con le parola di Helen Handflied Jones e Beth Axelrod, autrici del libro “The War of Talent”.
L’Employee Value Proposition ha bisogno di essere trasmessa, condivisa e che i destinatari ne siano non degli spettatori passivi, ma siano possibilmente partecipi.
Anche perché, lo ricordiamo, l’EVP è data dal valore che offre l’organizzazione, ma anche da ciò che i dipendenti o futuri tali possono fare per contribuire a rafforzarla.
Quando la EVP è condivisa, aiuta la strategia di Employer Branding a raggiungere gli obiettivi prefissati.
Ignorare feedback e recensioni
Altro errore molto comune è ignorare feedback e recensioni, siano essi positivi o negativi.
Nel primo caso, evitare di rispondere per ringraziare, non mettere un like, non commentare cercando di aggiungere valore, vuol dire non prendere in considerazione la persona che l’ha fatto né tantomeno dare il giusto peso al tempo che ha impiegato per farlo. Questo non aiuta a rendere l’azienda attrattiva, anzi genera nella persona che ha dato il feedback la sensazione di non essere importante. E, cosa ancor peggiore, fa pensare che l’azienda predichi bene – per esempio dicendo che è attenta alle persone – ma di fatto razzoli male. Il che poi si può ritorcere anche sul social recruiting.
Un errore altrettanto grave è ignorare i feedback negativi anche perché nessun’azienda è perfetta e riceverli può sì far male, ma è comunque la prova che si sta cercando di andare in una direzione ben precisa, commettendo ovviamente degli errori.
I feedback negativi spesso infatti riguardano un processo di selezione non andato a buon fine o una candidate experience non soddisfacente.
Un candidato/a può esserci rimasto male perché non ha saputo l’esito del colloquio, per il fatto di avere mandato delle e-mail senza aver ricevuto risposta o, ancor peggio, perché aspettava, entro una certa data, una comunicazione mai arrivata. Così come può lamentare il fatto di non essere riuscito a caricare il proprio CV o altro.
Ciò che conta di più è come si gestiscono questi feedback negativi. Fingere che non ci siano o addirittura cancellarli vuol dire darsi la zappa sui piedi.
Quello che invece bisogna fare è analizzare tutti i commenti e cercare di rispondere il più possibile a tutti in modo cordiale e gentile, riconoscendo lo stato d’animo di chi ha scritto la recensione e cercando di risolvere il problema, se necessario.
Si può poi rimandare a un’eventuale pagina del sito, se lì si trovano ulteriori informazioni, o a un articolo del blog per far capire il proprio punto di vista. Da non dimenticare: ringraziare sempre, anche per la risposta negativa!
Non conoscere e analizzare il proprio pubblico
Spesso in una strategia di Employer Branding si tende a dimenticare quanto i contenuti possano fare la differenza. Ma attenzione, perché sia così, è importante fare un’analisi del proprio pubblico, le cosiddette candidate personas, a cui rivolgersi.
Non tutti sono infatti interessati allo stesso tipo di contenuti.
Una persona che sta cercando lavoro per la prima volta vorrà probabilmente capire come funziona la fase di onboarding, se ci sono programmi di mentorship e avere maggiori informazioni sui contratti o su cosa sia il welfare aziendale (solo per fare qualche esempio).
Chi invece ha più esperienza, vorrà capire come crescere e fare carriera, quali progetti internazionali l’azienda manda avanti, se partecipa a degli eventi e così via.
Ecco perché bisogna ragionare in modo da soddisfare le esigenze informative dei potenziali candidati ma anche dei dipendenti stessi. E questo vale anche per il job posting: vanno progettati e scritti per il pubblico di riferimento.
In qualsiasi caso, è sempre meglio evitare di produrre tanti contenuti, ma puntare piuttosto sul renderli qualitativamente interessanti.
Si può anche sperimentare: anziché pensare solo a dei testi scritti, si possono realizzare dei podcast, così come delle infografiche, dei reel (formato video molto usato su Instagram) che permettano di “agganciare” i diversi pubblici.
Sottovalutare la presenza online per suscitare interesse
Legato a quanto detto sopra, capita spesso che le aziende sottovalutino o trascurino la propria presenza online. Cosa significa? Che puntano tutto sul creare annunci, condividerli magari in multiposting, ma poi hanno un sito fermo a 3 anni prima, con prodotti non più attuali e così via.
Il sito è la casa dell’azienda: parla dei suoi valori, del suo team, oltre che dei prodotti e servizi. Per questo è importante avere contenuti sempre aggiornati e curarne l’usabilità per consentire ai candidati, e agli utenti in generale, un’esperienza di navigazione positiva. E non solo.
Ancora oggi, molte realtà sottovalutano il potere della career page sia sull’Employer Branding che sul processo di selezione stesso. Certo, è una pagina vetrina – come spesso tendiamo a definirla – ma è anche un vero e proprio “ponte” tra i candidati e le organizzazioni che hanno pubblicato un annuncio di lavoro. In quanto tale, è proprio qui che bisogna intervenire per suscitare interesse: una persona che “atterra” sulla career page e ne è attratta, che si sente coinvolto nel racconto della realtà aziendale e dell’ambiente lavorativo, non perderà occasione di approfondire la conoscenza dell’azienda all’interno del sito.
La presenza online è fatta anche di ricerche sul web: di articoli pubblicati, di landing page, di annunci sponsorizzati, comunicati stampa ecc. Quando il candidato non trova sul sito un’informazione, la ricerca online, allora perchè tralasciare questo aspetto?
Trascurare i social media
Connesso a quanto detto sopra, altrettanto importante è non trascurare i social media. Avere una pagina Facebook e non aggiornarla così come un account Instagram o LinkedIn è un autogoal e rischia di minare la strategia di Employer Branding.
Attrarre le persone giuste vuol dire avere una presenza su tutti i canali che un possibile candidato può trovare online.
Spesso capita che le aziende mettano sul loro sito i collegamenti ai canali social senza che questi siano presidiati o esistano più. Anche questo è un errore da evitare. Piuttosto, meglio usare i social – ognuno per le sue caratteristiche – per raccontare cosa fa l’azienda, i valori in cui crede, le iniziative che porta avanti e perché è il “miglior posto dove lavorare”.
I social poi sono il luogo ideale per far vedere un nuovo aspetto dell’azienda, una nuova sede o per fotografare momenti di brainstorming: rappresentano l’opportunità per chi è all’esterno di capire cosa succede dentro.
Altro modo per usarli in modo strategico è quello di valorizzare le persone interne, cosa che si può fare in diversi modi. Per esempio: si possono creare delle card con la foto del dipendente, le sue passioni, il suo ruolo e “imbastire” un post su LinkedIn o su Facebook, oppure condividere un pezzo di intervista che poi sarà visibile sul sito.
Così come un’ottima strategia può essere condividere quanto i dipendenti scrivono sui loro canali social in merito ai progetti che portavano avanti o ai traguardi che hanno raggiunto. Il loro essere dei brand ambassador farà indubbiamente bene all’azienda e aiuterà a far camminare di pari passo l’Employer Branding con l’Employer Advocacy.
Infine, un ultimo consiglio: una strategia di Employer Branding che si rispetti passa anche dallo scegliere come condurre al meglio il processo di recruitment per evitare candidati insoddisfatti.
Un software ATS come Inrecruiting ti può aiutare a farlo: potrai creare facilmente la tua career page, gestire al meglio le candidature, fornendo feedback a tutte le persone che hanno inoltrato il CV, organizzare i colloqui con lo scheduler automatico facendo scegliere ai candidati quando effettuarlo, creare e inviare newsletter massive per segnalare nuove offerte di lavoro e creare una talent pool che ti permetta di tenere traccia dei candidati più interessanti incontrati ai colloqui.
Questo ti permetterà di dare la giusta attenzione alle persone e di trasformare la tua azienda nel posto in cui tutti vorrebbero lavorare. Che poi è quello che, né più né meno, fa una strategia di Employer Branding.
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Giornalista, content strategist e formatrice
Siciliana trapiantata a Milano, città che ama molto come la sua terra. Giornalista, SEO copywriter, formatrice e amante del live tweeting, scrive per varie testate e blog aziendali di lavoro, risorse umane e tanto altro.
Ha scritto nel 2020 il suo primo libro “Scrivere per informare” insieme a Riccardo Esposito, edito da Flacowski e nel 2021 altri due: “L’impresa come media” e “Content marketing per eventi“.
Ama il mare, la bici, la pizza, i libri, le chiacchiere all’aperto.