La diversity in azienda e il ruolo delle risorse umane per l’inclusione

La diversity in azienda e il ruolo delle risorse umane per l’inclusione

Si parla sempre più di diversity e inclusione, ma cosa si intende davvero? E qual è il ruolo attivo che chi lavora nel mondo HR può avere rispetto a questi temi? Scopriamolo nell’articolo.

Che la diversità sia un valore è una definizione ormai assodata in qualsiasi settore, che lo sia nei contesti aziendali e nei luoghi di lavoro è un concetto con cui stiamo facendo i conti negli ultimi anni. Li stanno facendo sicuramente i manager e sono indubbiamente sempre più coinvolte le risorse umane.

Anche perché, fino a qualche tempo fa, in un passato neanche troppo lontano, la direzione invece era tutt’altra: anziché valorizzare le differenze tra i vari dipendenti, collaboratori, capi ecc., si tendeva a privilegiare un modello aziendale che queste differenze le annullasse, magari in virtù di valori aziendali più alti, riconosciuti e diventati fondamento dell’impresa da anni. E se, magari, il concetto di diversity connesso a quello d’inclusione aveva fatto capolino grazie a leggi ad hoc come quella sulle Pari Opportunità (legge 165/2001), prevedendo l’inserimento in azienda di persone con disabilità fisiche e psichiche, di contro sul tema diversity c’era e c’è ancora da lavorare.

Quello di diversity è infatti un concetto molto ampio che non riguarda solo una tipologia di persone, ma consiste nell’accettare che, in ogni epoca in cui viviamo, ogni gruppo sociale è contrassegnato da particolarità e differenze che possono riguardare l’età, le abilità così come la cultura, ma anche l’appartenenza etnica, l’orientamento sessuale così come quello religioso e l’identità di genere.

Tutti aspetti che, come vedremo in questo articolo, sono da vagliare attentamente e che, se valorizzati, consentono non solo un generale arricchimento morale, ma anche più inclusione e produttività per le aziende. Gestire le diversità e valorizzarle infatti, come dicevamo, è diventato sempre più importante nel mondo HR tant’è che in alcune aziende la gestione della diversità è un vero e proprio approccio che ha preso il nome di diversity management.

SOMMARIO:

Cosa si intende per diversity sul lavoro?

Parliamo di team di lavoro in cui coesistono persone di genere, orientamento religioso o sessuale, etnia, età o abilità fisiche e psichiche differenti. La diversa provenienza, cultura, esperienza di vita, però, non genera in automatico valore per un’azienda. Non basta che un team sia diversificato, ossia abbia in sé quella ricchezza che viene dalla diversità, perché possa davvero lavorare in equilibrio.

diversity in azienda

Un team diversificato lavora bene quando si inizia a parlare d’inclusione e si procede in ogni modo possibile per attuarla. Cosa significa? Che le persone si sentono incluse sul luogo di lavoro quindi non discriminate per quello che sono né tantomeno sovraesposte, semplicemente hanno le stesse opportunità di tutti gli altri.

È molto importante che ciò sia tenuto in considerazione a partire dall’iter di selezione in cui le risorse vengono coinvolte, in vista della cosiddetta candidate experience, per proseguire poi con il processo di assunzione in cui vengono gestite, formate, valutate e premiate. Insomma, è essenziale che l’inclusione vada di pari passo con la diversity in tutto il recruitment.

Questo significa che, oltre a offrire pari opportunità a tutti i dipendenti, già assunti o potenziali, bisogna migliorare le procedure a seconda delle varie esigenze per poter garantire che in ogni fase del recruiting si rispetti la diversità.

Diversità e inclusione in azienda

Attenzione però a parlare di diversità e inclusione come se fossero le facce della stessa medaglia: non basta assumere, per esempio, persone di diversa etnia o orientamento sessuale per aumentare la diversity in azienda e di conseguenza garantirne l’inclusione.

Queste persone si sentono davvero parte dell’azienda, si sentono protagoniste o sono relegate a un ruolo marginale? E pur di sentirsi uguali agli altri, sono costrette a uniformarsi o invece si sentono libere di esprimere se stesse?

Lo stesso vale per le quote rosa: stabilirne l’assunzione per legge può essere sicuramente lodevole ed è un primo passo ma, perchè si possa parlare di inclusione, le aziende devono lasciarsi guidare dal merito delle donne e dal loro modo di lavorare.

Un discorso analogo va fatto per un’azienda che dimostra di sostenere la maternità. C’è chi consente di portare i figli sul luogo di lavoro, chi organizza gli spettacoli teatrali per i bambini o la festa di Natale, ma è importante anche dare la possibilità alle mamme di poter sfruttare il telelavoro o di lavorare in smart working, così come di tenerle costantemente aggiornate o di organizzare riunioni importanti in orari della giornata che vadano incontro alle loro esigenze di madri.

diversity e donne

Di contro, la discriminazione sui luoghi di lavoro può assumere forme molto diverse.
Secondo i dati condivisi da Fondazione Libellula – che ha condotto una survey su 11mila donne maggiorenni e lavoratrici in Italia che hanno risposto tra il 14 dicembre 2023 e il 31 gennaio 2024 – il 40% delle donne ha subito contatti fisici indesiderati sul posto di lavoro. Inoltre, il 27% delle lavoratrici ha subito richieste o comportamenti di natura sessuale. La percezione di questo pericolo, peraltro, porta 1 donna su 2 a modificare il proprio abbigliamento sul luogo di lavoro, per paura di incorrere in commenti o attenzioni indesiderate sul proprio corpo. Questo succede perlopiù alle donne più giovani, a chi non ha figli e a chi è senza un partner stabile così come a chi si dichiara di essere pansessuale o bisessuale.

Quanto al gender pay gap – ossia la parità di genere dal punto di vista retributivo – anche in questo caso l’Italia non è certo messa bene. Nel nostro Paese, lavora ancora solo poco più di una donna su due, come riporta l’Agenzia AGI rifacendosi al Global Gender Gap Report 2023 del World Economics Forum, un numero che pone l’Italia all’ultimo posto per occupazione femminile in Europa, con quasi 15 punti percentuali in meno rispetto alla media Ue.

Per non parlare della busta paga: il gender pay gap ha raggiunto i 7.922 euro nel nostro Paese e per arrivare a una vera parità di genere si prospetta che dovremmo aspettare ben 130 anni!

Team multigenerazionali e gender gap

Le discriminazioni tra uomo e donna non riguardano ovviamente solo gli stipendi, ma appunto anche le possibilità di carriera, l’accesso a certi vantaggi o la possibilità di poter fare determinati lavori. Spesso capita di non assegnare ruoli di comando a donne che magari sono mamme di 2 o 3 figli perché si pensa che non potranno essere disponibili in determinati orari o si chiede loro di adottare dei modelli maschili.

Eppure chi è madre, come dimostrano sia un libro che un vero e proprio programma “Maternity as a master”, acquisisce delle skills che altri non hanno. Ne citiamo giusto alcune, per il resto vi rimandiamo al programma così come al libro: la resilienza, la capacità di mediare tra persone molto diverse, la capacità di sapere gestire i tempi meglio di altri, dovendo sfruttare al massimo ogni minuto, così come la concretezza e altro ancora. Un team che inglobi le donne, le apprezzi per la loro diversità e non le voglia uniformare acquisisce ricchezza e cresce.

diversity e inclusione in azienda

Stessa cosa riguarda anche i cosiddetti team multigenerazionali. Molto più che rispetto al passato, nelle aziende i team sono formati da persone che hanno uno scarto generazionale molto significativo, non solo dal punto di vista anagrafico, ma proprio nel modo di intendere il lavoro e vedere l’azienda.

Secondo uno studio sull’Employee Engagement, condotto da Dale Carnegie Training e riportato dal Sole 24Ore, gli over 50, per esempio, si sentono molto più coinvolti degli altri sul luogo di lavoro così come i cosiddetti Baby Boomer, ossia coloro che sono nati tra il 1945 e il 1960 che hanno un grado di coinvolgimento abbastanza elevato, nonostante siano prossimi alla pensione. Forse per gli anni dedicati al lavoro, forse magari per timore che ritirandosi non abbiano più nulla da dimostrare, queste risorse sono molto legate all’azienda.

Diverso è il caso invece della cosiddetta Generazione X, ossia chi è nato tra gli anni ‘60 e’80, che mostra un coinvolgimento minore nei confronti dell’azienda, probabilmente anche per il punto a cui è giunto nella sua vita o per altre aspirazioni personali. Anche se, come dimostra lo studio di Dale Carnegie, questo potrebbe essere dovuto al fatto che chi ha tra i 40 e i 49 anni, si trovi già all’apice della carriera e avendo vissuto, in particolare chi è nato negli anni ‘70, situazioni di grande instabilità e precariato, è meno propenso a legarsi all’azienda. Per non parlare poi dei cosiddetti Millennials, chi cioè è nato tra gli anni ‘80 e il 2000.

Per loro il mondo è nato con Internet, è nato con i social media, è cresciuto con lo smart working e sono abituati più che a guardare lo stipendio e i benefit, a scegliere il posto di lavoro dove si trovano meglio, dove possano essere valorizzati, dove possano crescere e dove sia possibile lavorare in mobilità, anche grazie all’uso di tecnologie. Per loro, molto più di chi è prossimo alla pensione, termini come remote working o smart working sono all’ordine del giorno così come lavorare senza orari fissi ma per obiettivi.

I Millennials, poi, sono molto attratti da quella che è la proposta di valore di un’azienda, così come sono propensi, se si trovano bene, a farsi brand ambassador e portavoce dell’employee advocacy, quindi mettono al primo posto i valori e la flessibilità organizzativa anziché la cultura del profitto.

Va da sé che i team multigenerazionali sono una ricchezza in ottica di diversity, ma bisogna saperli gestire. Adattare a tutti lo stesso modello aziendale, quando ci sono esigenze specifiche molto diverse, può non essere la scelta giusta e va contro quell’inclusione di cui abbiamo parlato prima.

Bisogna piuttosto identificare i diversi stili di lavoro e le diverse modalità di comunicazione, comprendere le differenze e le attitudini e creare dei team che proprio per la loro diversità possono andare avanti. Chi è più giovane potrà fare da tutor a chi è più anziano per quanto riguarda determinate tecnologie e chi è più anziano potrà regalare la propria visione d’insieme a chi è meno esperto.
Allo stesso tempo, però, come dicevamo, sono importanti i riconoscimenti che vadano a compensare le diverse aspettative delle diverse generazioni.

Cosa possono fare le risorse umane in ottica diversity

Ecco come possono comportarsi le risorse umane per favorire la diversità e l’inclusione sul luogo di lavoro. Innanzitutto partendo con il rimuovere i pregiudizi nelle assunzioni.

La Legge sulle Pari Opportunità è chiara, ma non sempre applicata: nei job posting non dovrebbero essere indicati né l’età né tantomeno il genere, ma bisognerebbe scrivere delle job description che siano il più neutre possibile in modo da rendere la candidate experience un momento in cui tutti gli aspiranti candidati si possano sentire a loro agio. Anche il processo di assunzione con le domande per il colloquio deve andare in tale direzione con l’obiettivo di trovare le persone più adatte per quel lavoro, in base alle loro competenze, e non per “simpatie”.

Sarebbe inoltre bene tenere traccia di come ci si stia comportando per capire se ci sono margini di miglioramento e i progressi che vengono fatti. In questo, per esempio, potrebbe essere d’aiuto un software ATS come InRecruiting per tenere traccia delle persone che si sono incontrate, degli aspetti che hanno colpito così come nel ritrovare successivamente un determinato profilo.

Un software potrebbe aiutare anche ad avere dati su vari team multigenerazionali, sulla presenza di persone con disabilità così come a tenere traccia, specie se si lavora in una grande azienda, di quante donne occupano ruoli di leadership e come considerare i vari gradi di diversity (non solo legati al genere, alla razza, ma anche all’età).

Gli HR hanno poi un altro ruolo, che va oltre quello di ricerca e selezione del personale. Devono impegnarsi per costruire un’azienda che sia diversificata e non possono farlo da soli, ma devono coinvolgere in primis i membri del loro team e allo stesso tempo chi ha ruoli apicali. Devono cercare di porre le basi perché una cultura della diversity diventi parte preponderante della cultura aziendale.

Devono inoltre ingaggiare i dipendenti, indipendentemente dall’anzianità, dal ruolo o da altro e questo perché possano tutti capire l’importanza della diversity e come gestirla. È infatti allo stesso tempo importante fare dei corsi in merito, attuare delle politiche che siano condivise e che facciano sì che tutti possano essere consapevoli delle aspettative, dei valori e dei comportamenti in ottica di rispetto reciproco e accettazione.

Perché creare un ambiente inclusivo

In parte lo abbiamo accennato: non solo in termini di ricchezza morale, ma anche perché rende l’azienda più produttiva. L’Italia, come emerge dal dall’EY European DEI Index, un’analisi sul tema della diversità e inclusione realizzata da EY in collaborazione con FT-Longitude, raccogliendo l’opinione di 900 manager (dirigenti e C-suite) e 900 dipendenti provenienti da 9 Paesi europei, deve ancora fare dei notevoli passi in avanti. Ma le aziende che le mettono in campo, hanno diversi vantaggi soprattutto – ma non solo – dal punto di vista delle percezione.

Se il 57% degli italiani ritiene che la propria organizzazione abbia un buon livello di diversità etnica e culturale (in linea con la media europea), il 48% e il 44% valutano scarso rispettivamente il livello di diversità socioeconomica e l’inclusione delle persone con disabilità.

Diventa, pertanto, evidente come puntare sulla diversity ha sicuramente dei vantaggi per quel che riguarda la ricchezza così come la molteplicità dei saperi che si possono condividere e il multiculturalismo. Ma rafforza anche la brand reputation e, a cascata, l’employer branding.