Perché l’Employer Branding è sempre più strategico – Intervista ad Antonio Incorvaia

Perché l’Employer Branding è sempre più strategico – Intervista ad Antonio Incorvaia

Employee retention: come e perché valorizzare il personale in azienda

Non basta pensare di voler promuovere la propria azienda come luogo di lavoro ideale per essere davvero in grado di farlo attraendo le persone più valide e possibilmente più in linea con i valori aziendali. Quella “disciplina” che viene chiamata Employer Branding è in realtà molto complessa e ricca di sfaccettature.

Per analizzarla a fondo, anche alla luce di quello che è successo in questo 2020, ne parliamo in questa lunga intervista ad Antonio Incorvaia, autore del libro “Employer Branding”  edito da Apogeo  e che svolge attività di consulenza e formazione per agenzie e aziende in ambito Digital Marketing, Content Marketing ed Employer Branding.

Perché possiamo dire che l’Employer Branding è una disciplina “agonistica”? E alla luce della pandemia da Covid-19 lo è diventata ancora di più? E in che direzione sta andando?

Che sia una disciplina agonistica è fuor di dubbio visto che si tratta di un modello strategico che permette di assicurarsi i talenti migliori e incrementare la propria reputazione in una visione di mercato. Attrarre i talenti e mantenerli è dunque inevitabilmente competitivo anche perché, come sappiamo, non sono più solo le aziende a scegliere le persone, ma anche viceversa. Se in ottica di mercato, poi, siamo abituati a ragionare sui competitor che operano nella nostra stessa area merceologica, dobbiamo comunque ricordare che un talento potrebbe trovare una posizione adatta alle sue skill anche in due aziende che non hanno niente a che vedere tra di loro. 

Dopo l’avvento del Covid-19, l’Employer Branding è diventato ancora più strategico e competitivo e questo perchè da un lato c’è stato un effetto globale negativo sul mondo del lavoro, con tante persone che sono rimaste senza, sono tuttora in cassa integrazione, o hanno paura di perdere l’impiego e questo ha generato un clima di sfiducia generalizzato. Dall’altro, c’è una gran voglia di ripartire e rilanciare l’economia e questo è tutto terreno fertile per l’Employer Branding: le aziende devono dare segnali più forti e investire sulle persone diventa per esse ancora più importante di investire su altro. Inoltre, il numero di persone che vogliono cambiare lavoro è aumentato esponenzialmente e ciò ha creato un flusso di ricerca più alto rispetto al 2019. In un contesto simile, l’Employer Branding diventa la soluzione più strategica.

E come la mettiamo con quelle aziende che, magari, sono state chiuse per diverso tempo o visto il considerevole calo del fatturato, in questo momento non assumono? Che senso ha per queste l’Employer Branding?

A mio avviso, mettere in atto strategie di Employer Branding anche quando non stai assumendo direttamente è importante. Perché quando arriverà il momento in cui inevitabilmente cercherai di rimetterti in moto o quando ti si libererà una posizione (cosa che può succedere da un momento all’altro), eviterai di trovarti senza niente di fertile su cui fare leva. Se non avrai agito in questo modo, sarai costretto a delle attivazioni tattiche. In Italia d’altro canto siamo particolarmente bravi a impugnare una tattica mentre nel mondo anglosassone si punta sulla strategia. Ma la differenza tra le due non è affatto banale: la tattica è impulso ed esecuzione, la strategia è metodo è previsione

Inoltre non dimentichiamo che l’Employer Branding può servire anche per i dipendenti interni, in modo da ingaggiarli e renderli protagonisti del tuo vissuto di azienda. 

Quanto conta l’Employee Value Proposition per l’Employer Branding oggi? 

LEmployee Value Proposition conta tantissimo purché sia solida. Siamo abituati che, per lanciare prodotti e servizi, nello scenario di mercato attuale, la comunicazione faccia largo uso di value proposition così come siamo abituati a leggere messaggi in cui anche un prodotto ininfluente sia qualcosa di cui possiamo avere davvero bisogno.

Ma, nonostante ciò, nelle sezioni Career o Lavora con noi dei siti aziendali quello che spesso si trova è l’elenco delle posizioni aperte, la possibilità di inviare una candidatura spontaneamente e poco altro. Manca proprio il racconto del perché una persona dovrebbe lavorare in quell’azienda, la narrazione della sua attrattività. In questo l’EVP, che può essere anche una frase, un payoff, un tweet, anche breve, deve imprimersi nel percepito delle persone e far capire qual è la promessa di reciproco successo che l’azienda fa a un dipendente, in uno scenario che da un lato è culturale, dall’altro valoriale.

Attraverso l’EVP, l’azienda fa una promessa al talento che può avere un messaggio diverso a seconda dell’archetipo cui si appartiene. Sono 4: uno è il brand come élite con il “Siamo i migliori accetta la sfida”, un altro il brand come mecenate “Grazie a noi, tu vinci”. Ci sono poi il brand come famiglia “Grazie a te, noi vinciamo” e il brand come mentore “Sei un talento, unisciti a noi”. Pertanto la EVP non dev’essere campata in aria, ma far capire quale relazione si crea tra dipendente e azienda”.

Oggi, come scrivi anche nel libro, nell’Employer Branding sono coinvolte diverse funzioni e persone come HR, comunicazione, marketing, agenzie, consulenti, data science, intelligence ecc.. quanto e in che modo si possono combinare?

Riferendoci proprio all’EVP, anche per scriverla di solo 2 righe serve un’analisi di scenario, qualcuno che sappia formulare la promessa del brand (lavoro di branding e di marketing), servono i comunicatori, servono gli HR, visto che oggi ogni persona ha un anche un valore di mercato come professionista. Serve il marketing se consideriamo che la produttività e l’incremento del business sono variabile strettamente dipendente a quanto una risorsa umana si identifica nell’azienda in cui lavora. Quando si mettono HR e marketing sulla stessa riga sembra che sporchiamo la purezza della risorsa umana, ma di fatto questo è un arricchimento, un’evoluzione. Il marketing non cannibalizza l’aspetto HR, semplicemente dà a questo un’importanza che prima non aveva e che diventa fondamentale nel 2020 post Covid. 

La collaborazione di tutte le funzioni è importante anche per dare vita a candidate journey che non siano infinite e che, essendo così, non testano quanto si tiene veramente all’azienda, come erroneamente si pensa. C’è chi ha tempo per fare tutti i passaggi, c’è chi non ce l’ha perché magari è meno libero lavorativamente, pertanto può non completare tutte le fasi. È dunque importante considerare anche parametri diversi che portano una persona a sceglierci o meno. 

Anche il racconto dello smart working, poi, può rientrare in ottica Employer Branding: c’è chi pensa che responsabilizzi il lavoratore e deresponsabilizzi l’azienda e invece quest’ultima ha la responsabilità di creare un tessuto connettivo importante. Raccontare quanto l’azienda fa in tal senso, come ha fatto Dentsu (agenzia di digital marketing, ndr) che si è messa subito nelle condizioni affinché il percepito della persona a casa fosse di essere inserito nell’ecosistema del lavoro tradizionale, può essere un’ottima idea di racconto inclusivo

Quali sono i canali online cruciali per le aziende in ottica di Employer Branding?

In primis, una pagina o una sezione Careers nel sito corporate che è un hub dove vanno a confluire tutti i candidati per informarsi, cercare riferimenti e farsi un’idea di come si lavora all’interno della azienda. Purché sia progettata in ottica di Employer Branding (come spieghiamo meglio sotto, ndr).

Poi tutto l’ecosistema social: non solo LinkedIn per il quale le statistiche ci dicono che il tempo medio di permanenza di un utente è di mezz’ora al mese e dal mio punto di vista più utile per lo scouting, ma anche Facebook, spesso sottovalutato dalle aziende e che gli HR ritengono un canale troppo personale.

Ma in nessuna piattaforma puoi profilare il target come fai con Facebook, inoltre è tramite questo social che si coglie l’aspetto emotivo delle persone: c’è tutto un sottobosco di Employer Branding, user generated content (UGC) che le persone non riescono a sfruttare. Facebook è strategico per l’Employer Branding non solo in uscita, ma anche a livello di ascolto e monitoring (quindi in entrata): se devo, cioè, farmi un’idea su quali contenuti possono essere ricondotti a un livello professionale. Non vuol dire spiare i propri lavoratori, ma mi serve per mappare il contesto, per capire cosa succede.

Il blog è il canale attraverso cui le aziende possono coltivare e nutrire la relazione con dipendenti esterni e interni, ma anche con i media. Ci sono decine di sezione career che hanno la sottosezione blog che viene aggiornata ogni 3 mesi e questo non è produttivo. Se non si riesce ad aggiornare i canali è meglio non averli.

Un mondo inesplorato è il mobile, a livello di applicazioni. A oggi, infatti, non abbiamo best practice per quanto riguarda la app di Employer Branding. Ce ne sono lato engagement, ma non di Employer Branding; eppure le app consentirebbero alle aziende di semplificare la user experience dei talenti, ma anche dei dipendenti e degli stakeholder di settore. Si potrebbe approfittare della geolocalizzazione, così come dei dati che vengono dai social ecc…

Quali sono le aree di azione dell’Employer Branding e in che modo possono essere portate avanti?

Dal mio punto di vista sono 3: attrazione, retention, reputazione. Quando devo attrarre una persona posso lavorare su leve di attrazione diverse tra loro: non solo annunci, ma talent game, recruiting game che fanno leva sull’engagement. Ci sono dei modelli di invio delle candidature innovative, con aziende che chiedono di mandare un video, un cv in un particolare formato, aziende che presentano risorse come le figurine di un album dei calciatori. O come fanno altre, inserire in questa sezione suggerimenti su come superare il colloquio di lavoro all’interno dell’azienda.

Per la retention devi coinvolgere persone che possono essere scontente. Farle diventare brand ambassador, per esempio, è un modo  per renderle protagoniste non solo di quello che fanno davanti al pc, ma anche di un racconto di cosa fanno nella vita non lavorativa. In ottica di retention conta la formazione interna: no a corsi per bloccare l’agenda, si a corsi che rendono le persone professionisti migliori e tali anche sul mercato. E la paura che vadano via viene meno: se ti insegno qualcosa e te la insegno io, resti. O ancora, eventi che coinvolgano i dipendenti come la serata dei talenti, con karaoke, ma in qualche modo tiri fuori lati dei dipendenti più autentici. 

Lato reputazionale:  dimostro di essere vicino ai dipendenti ma anche di pensare al futuro. Con workshop, career day, posso pubblicare delle ricerche di settore che magari non si trovano da nessuna parte, posso organizzare degli eventi divulgativi. 

Qual è il ruolo dei software ATS nell’Employer Branding?

I software ATS sono una parte fondamentale dell’HR 2.0 perché gli permettono di controllare, mappare un processo che in realtà è l’atterraggio della strategia dell’Employer Branding se si lavora per portare dati e informazioni che siano in target. Questi strumenti danno all’HR la possibilità di avere sotto controllo in modo facile ed ergonomico i risultati e l’andamento delle attività che sta svolgendo.

Trovo che sia fondamentale che i risultati delle attività siano anche numerici, e vadano oltre il numero di candidature che ottieni, perché gli ATS ti danno delle indicazioni anche future, spettri di dati per attività che farai ex post, ti danno dei benchmark, ti mettono nelle condizioni di passare da competenze puramente umanistiche a competenze anche scientifiche ma che non devono spaventare. Ottimizzano il lavoro, restituiscono uno specchio di cosa è stato fatto e come ha performato e rendono delle valutazioni che sarebbe difficile attuare. 

Il mondo del digitale sta andando sempre più verso l’Intelligenza Artificiale che non sostituirà le persone nell’intelligenza naturale, ma semplificherà molto le attività in cui il cervello rischia di andare in overload. Quante volte gli HR dicono che non sono riusciti a leggere tutti i cv?

L’AI fa il lavoro che nessuno potrebbe fare, di far arrivare agli occhi del selezionatore un indice di informazioni che per lui sono già rilevanti.